domenica 14 febbraio 2016

Il consumo di alcohol in India

La legislazione indiana in materia di produzione, distribuzione, vendita e consumo di bevande alcoliche, risulta essere piuttosto complessa, a causa dell’attiva presenza di numerose religioni, che spesso hanno un differente approccio, per cui i singoli stati godono di una certa autonomia e le leggi possono variare notevolmente.
In generale produzione e distribuzione sono regolate da leggi del governo centrale, mentre vendita e consumo sono lasciate alla discrezioni dei singoli stati, a parte il fatto che in tutta l’India è illegale bere in pubblico al di fuori dei luoghi autorizzati (quindi camminare per strada bevendo una birra, anche nei posti più permissivi, potrebbe creare grossi problemi).
Partendo dai luoghi dove la legislazione in materia è più rigida, lo stato del Guajarat, assieme a Manipur, Mizoram e Nagaland (tre piccoli stati del nord-est) e al Territorio delle Laccadive (piccolo arcipelago dell’oceano indiano) sono considerati “dry” (asciutti), cioè la vendita e il consumo di alcohol è illegale.
In Gujarat questo divieto vige dal 1960 quando lo stato di Bombay venne diviso in Maharashtra e appunto Gujarat; il motivo è per rispettare la terra natale del Mahatma Gandhi.
Come prevedibile, questa eccessiva ristrettezza favorisce un discreto sviluppo del mercato nero, dove purtroppo sono presenti numerose preparazioni altamente pericolose, come successo nel 2009 quando morirono 136 persone a causa di un distillato allungato con il metanolo.
Nei tre stati nordorientali i divieti sono più recenti e l’effettivo bando non troppo rigido, visto che pare venga concessa qualche esenzione ad alcune bevande locali tradizionali, come il vino di guava.
Esistono poi numerosi luoghi sacri indù in cui vige il divieto di vendere e consumare alcohol, seppur in realtà siano i costumi religiosi, piuttosto che le norme giuridiche, a far rispettare tali leggi.
Nello stato dell’Uttaranchal, che occupa colline e montagne di particolare importanza religiosa, sono molti i luoghi sacri che seguono questa norma: piuttosto nota è l’assenza di negozi di alcolici nella sacra e turistica Rishikesh, con la rivendita più vicina situata abbastanza scomodamente a circa 15 chilometri di distanza.
Anche la sacra cittadina di Pushkar, in Rajasthan, segue questa norma, seppur in maniera meno rigida: almeno uno dei vari ristorantini turistici sui tetti propone qualche birra, ma è anche presente una piccola rivendita sulla strada che porta verso i campi, probabilmente considerata appena fuori il confine sacro della città.
Nello stato dell’Uttar Pradesh, dove si trovano molte città sacre, le leggi sono piuttosto restrittive, per esempio sono vietati i negozi di alcolici a meno di duecento metri da luoghi di culto e istituti scolastici, ma soprattutto è la mentalità locale, decisamente conservatrice e contraria all’alcohol, che ne limita la diffusione.
In realtà il consumo di bevande alcoliche è in continua crescita, rendendo quello della vendita un ottimo business, ma ottenere una licenza e aprire un negozio non è per niente facile, anche a causa del fatto che il mercato è completamente nelle mani della ricca e potente mafia locale.
Altri stati, come ad esempio Madhya Pradesh, Rajasthan, Maharashtra e Karnataka, dove l’influenza religiosa è minore, hanno legislazioni leggermente più tolleranti, seppur sia noto come perfino a Mumbai e Bangalore i buoni locali dove bere alla sera sono piuttosto pochi.
Ancora più permessivi sono invece gli stati del Punjab, dell’Haryana, il territorio di Delhi e il Bengala Occidentale.
In Punjab e Haryana questo è dovuto alla religione sikh che non ha nessun pregiudizio di sorta contro il consumo delle bevande alcoliche, come avviene anche a Calcutta grazie a una discreta diffusione del cristianesimo.
Le rivendite di alcohol sono quindi numerose e ben fornite (almeno secondo gli standard indiani), come anche sono numerosi i bar-restaurant.
A Delhi, invece, la situazione è alquanto complessa in quanto capitale e crocevia di ogni cultura indiana: da un lato sembra più interessata all’aspetto economico della questione, piuttosto che quello religioso, quindi per quanto riguarda la vendita sono molto diffusi sia i negozi che i bar-restaurant; dall’altro, come vedremo più avanti, esistono invece rigide norme sul consumo.
Nel Bengala delle campagne, la tolleranza è data dal fatto che la divinità principale di quest’area è Kali, alla quale l’alcohol viene spesso offerto anche durante i rituali, a cui va aggiunto che in alcuni manuali tantrici le bevande alcoliche, grazie al loro potere di trasmettere la conoscenza spirituale, sono considerate nientemeno che la divinità Kali-Tara sotto forma liquida.
Anche gli stati montani come l’Himachal Pradesh, il Ladhak e il Sikkim, sono piuttosto tolleranti, in questo caso grazie alla tradizione buddista (nonché al clima rigido), seppur in alcuni paesi l’eccessiva disinvoltura stia iniziando a creare qualche problema.
Infine, gli stati più permissivi sono i piccoli staterelli dove la dominazione straniera si è conservata più a lungo e sono rimasti, almeno dal punto di vista dell’alcohol, delle piccole enclavi “libertine”.
Goa è famosa per i bar sulle spiagge dove bere birra fresca o il locale fenny (un distillato ottenuto dalla noce di cocco o dagli anacardi), come accade anche nel meno noto stato di Daman e Diu (composto dalla città di Daman e l’isola di Diu, entrambi in Gujarat), mentre a sud invece vi è lo stato di Pondicherry, a lungo sotto il dominio francese.

A tutto questo vanno aggiunti altri due fattori caratteristici indiani che possono aiutare a farsi un’idea della complessa mentalità sull’argomento.
Il primo riguarda le leggi sull’età minima consentita per il consumo di alcohol, che variano decisamente da stato a stato.
In 6 stati è fissata ai 18 anni, ma nella maggior parte dei casi (10) è a 21 anni e in 5 stati a ben 25, a cui va aggiunto il Maharashtra, lo stato della “moderna” Mumbai, dove viene fatta una distinzione tra birra (21 anni) e superalcolici (25 anni).
La seconda caratteristica è la presenza di giorni “dry”, in cui è vietata la vendita, che possono essere sia festività laiche (le celebrazioni dell’Indipendenza, della Repubblica e il compleanno di Gandhi), che religiose (Holy, Shivaratri, Durga Pooja e Diwali), a cui vanno aggiunti i giorni dedicati alle elezioni.
Il motivo è prevenire disordini ma anche in questo caso la differenza tra i vari stati è considerevole.
Per esempio a Delhi (dove già l’età minima è inspiegabilmente alta, 25 anni) sono numerosissimi i giorni “dry”, a causa del fatto che, essendo la capitale, deve in qualche modo rispettare tutte le tradizioni del paese; ad esempio sono giorni “dry” le date di nascita dei fondatori delle maggiori religione indiane: Krishna per i vishnuiti, Guru Nanak per i sikh, Buddha per i buddisti e Mahavir per i jaina
Per i cristiani invece il giorno “dry” è Venerdì Santo, mentre per i mussulmani vengono riservati i giorni di Id (sia Id ul-Fitr sia Id al-adha) e il Muharram.

Ma cosa di beve in India? O meglio ancora, cosa bevono gli indiani?
Come accade per tutti i prodotti, le importazioni dall’estero sono pochissime, poiché oberate da elevate tasse, quindi bisogna affidarsi ai prodotti locali.
Partendo dai liquori meno costosi, consumati prevalentemente da lavoratori manuali, sul mercato (per l’esattezza in negozi governativi simili a topaie) vengono venduti alcuni distillati locali di rosa, arancia o limone, a prezzi decisamente bassi.
Il gusto è a dir poco disgustoso e seppur possano essere considerati dei veri e propri brucia-budella, il fatto che siano prodotti dal governo fa sì che almeno siano sicuri e non siano allungati col metanolo o altre sostanze che spesso in India causano delle stragi.
I liquori “stranieri”, cioé whisky, rhum, vodka e gin, si vendono presso negozi leggermente più decorosi, dove è possibile acquistare bottiglie “da un quarto” (180 ml), “da mezzo” (365ml), o “full” (750ml)  di alcolici di varia qualità.
Il whisky è sicuramente la bevanda più apprezzata e ne esistono numerose marche: il famoso Bagpiper deve il suo successo più che al leggero e poco gradevole gusto, al suggestivo nome (suonatore di cornamusa) e al modesto prezzo di circa un euro e mezzo a bottiglietta.
Spendendo qualche soldo in più, con poco più di due euro si può iniziare a bere un whisky decente e senza dover temere bruciori di stomaco: Royal Challenge e Signature iniziano ad essere bevibili, mentre con un ulteriore sforzo economico si potrebbe provare il discreto Blender’s Pride.
Prezzi e qualità quindi salgono fino ad arrivare a whisky “pregiati”, come il famoso Black Dog, che però a causa dell’altissimo prezzo tendono a rimanere a lungo sugli scaffali dei negozi.
Gli altri alcolici, quali rum, vodka e gin, sono invece presenti di solito con sole 2-3 marche, quindi la scelta è piuttosto ristretta.
Le persone più moderne, con qualche soldo da spendere (e forse anche meno alcolizzate) tendono invece a consumare birra, seppur la qualità sia in genere piuttosto bassa e le produzioni cambino notevolmente da stato a stato, per cui una birra che può essere bevibile in Punjab, in Uttar Pradesh potrebbe essere disgustosa.
A questo vanno aggiunti i problemi nel consumarla a temperature accettabili, visto che la birra andrebbe consumata fredda, cosa che a causa del clima e dei tagli di corrente in India non è sempre possibile.
Per quanto riguarda il vino, Re delle bevande alcoliche, la produzione indiana sta iniziando ad affacciarsi sul mercato con prodotti interessanti, provenienti dalla storica area di Nashik in Maharashtra.
Certo la qualità non può competere con i prodotti europei, ma è possibile bere del Cabernet, del Merlot o dello Shiraz che potrebbero accompagnare degnamente gli speziati piatti indiani, spendendo la cifra ragionevole di circa 7-8 euro a bottiglia.
Il problema più grande è la reperibilità del prodotto, visto che il consumo del vino in India è ancora raro, e solo nelle grandi città è possibile trovare qualche bottiglia; generalmente della marca Sula, una delle più presenti sul mercato.
Venendo invece alle bevande tradizionali, che, nonostante le restrizioni culturali, data l’estensione e la diversità del territorio, sono abbastanza numerose, la miglior bevanda alcolica è sicuramente il vino di palma, chiamato toddy in inglese, kallu al sud e tari al nord.
Il sistema di raccolta è particolarmente semplice, visto che consiste semplicemente nel praticare un’incisione vicino ai fiori delle palme e legando una piccola giara di terracotta sotto al taglio, lasciandovi gocciolare il liquido all’nterno.
Appena raccolto, in genere alla mattina presto, il liquido iniza a fermentare e già dopo un paio d’ore raggiunge una gradazione alcolica intorno ai 4-5 gradi, con un gusto “piantoso” molto fresco e un vago senso di effervescenza.

La gradazione aumenterà fino a sera, diventando via-via sempre più forte, come anche il gusto, ma un’eccessiva fermentazione, lasciandolo a riposare per la notte, trasformerà invece il gustoso vino in aceto.

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